“Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo” – XXIII del tempo ordinario – anno C

“Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”

XXIII del tempo ordinario – anno C

Le letture di questa domenica ci accompagnano in un percorso vocazionale che, partendo dal necessario discernimento per comprendere ciò a cui Dio chiama ad essere nella vita, conduce fino al dono di sé, che è l’espressione più propria del sacerdozio ministeriale. Il presbitero, infatti, sull’esempio di Cristo Buon Pastore che offre la vita per il gregge, è costantemente e interamente chiamato a donare sé stesso alla comunità in cui è inviato.

La sapienza di Dio, principio del discernimento vocazionale

Per compiere questo discernimento è fondamentale lasciarsi guidare dalla Sapienza di Dio, senza la quale, ci dice la prima lettura, non si potrebbe conoscere il suo volere, né cambiare i nostri sentieri per percorrere quelli sui quali egli ci invita a seguirlo. Essere guidati da questa sapienza, che è frutto dello Spirito Santo, ci difende, prima di tutto, dal pericolo di piegare Dio ai nostri desideri e progetti. Essere guidati da questa sapienza, poi, ci aiuta ad andare in profondità nella nostra vita, a dargli cioè quel sapore (sapienza, dal latino sapere= dare gusto) che solo Dio Padre può dare: questo perché egli, attraverso la scoperta e l’adesione alla nostra vocazione, ci porta al massimo bene, alla massima felicità che possiamo desiderare per noi, anche se questo chiede di prendere «la propria croce».

Christus in fratribus: “fondamento” della vocazione al presbiterato

Ma, ci chiediamo, dove trova questa sapienza? Essa, in quanto grazia, è prima di tutto dono sempre da invocare nella preghiera, ma giunge a noi anche attraverso i fratelli e le sorelle che il Signore, come suoi strumenti, pone al nostro fianco nel cammino della vita. Se ci pensiamo bene a molti di noi viene in mente la figura di questo o quel prete importante nel proprio cammino vocazionale e che ha dato una bella testimone di Cristo come suo collaboratore, tanto da far germogliare in noi la chiamata a seguirlo in una vita di speciale consacrazione. Consacrazione che ci pone in modo pieno e totale a servizio degli uomini e delle donne del nostro tempo e del nostro territorio. Ecco allora che la carità fraterna diviene il fondamento della nostra vocazione perché, a partire dall’incarnazione, siamo chiamati a riconoscere nell’altro il Cristo sofferente, povero e straniero. Di tutto questo troviamo un esempio reale e concreto nella seconda lettura: Paolo è, infatti, per Onèsimo colui che lo genera alla fede; Onesimo, a sua volta, è colui che lo aiuta e sostiene. Dice, infatti, l’apostolo: «Avrei voluto tenerlo con me perché mi assistesse»; Filemone, infine, è colui che pur essendo padrone può e deve vedere in Onèsimo un fratello (condividono la stessa fede), con tutto ciò d’amore e carità che questo comporta.

Il dono di sé come sequela di Cristo

Riconoscere nell’altro Cristo, per il presbitero, si traduce concretamente, come già detto all’inizio, nel fare della propria vita un dono, proprio come Gesù ha totalmente donato la sua vita sulla croce, come ci sentiamo dire nel vangelo di oggi: «Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo». Tutto questo realizza anche l’invito, libero e liberante, che il seguire Cristo significa porlo al primo posto («Se uno viene a me e non mi ama più di quanto…»), anche prima degli affetti più cari e della propria vita.

Invochiamo, allora, su di noi e sui giovani in cammino verso il presbiterato il dono della sua Sapienza, per poter discernere la sua volontà e saperlo riconoscere negli altri.

don Alessio Cheso