Da Avvenire del 29 maggio 2017
di José Tolentino Mendonça
Il tempo costituisce fondamentalmente una sorta di coreografia interiore. Si direbbe che la vita stessa ci sollecita ad ascoltarla in un altro modo. È con questo imperativo che ognuno di noi è chiamato a confrontarsi: l’irresistibile necessità di ritrovare la vita nella sua forma pura. Per esempio: se la linea azzurra del mare ci seduce tanto, è anche perché questa immensità ci ricorda il nostro vero orizzonte; se saliamo sulle alte montagne, è perché nella visione chiara che di lassù si raggiunge del reale, in quella visione fulgida e senza cesure riconosciamo una parte importante di un appello più intimo; se andiamo in cerca di altre città (e, in queste città, di un’immagine, di un frammento di bellezza, di un non so che…), è anche perché stiamo inseguendo una geografia interiore; se semplicemente ci concediamo un’esperienza del tempo dilatata (pasti assunti senza fretta, conversazioni che si prolungano, visite e incontri), è perché la gratuità, e solo essa, ci dà il sapore protratto dell’esistenza stessa.
Prendiamo quel verso coniato da Rainer Maria Rilke che dice: «Attendo l’estate come chi attende un’altra vita». Questo verso non ci proietta al di fuori di noi, piuttosto ci inizia all’arte dell’immersione interiore. Davvero durante i lunghi inverni del tempo non è una vita strana e fantasiosa quella che dobbiamo attendere (e per la quale lavorare!), ma una vita che realmente ci appartenga. È di un’estate così che Rilke parla, e che può coincidere con qualsiasi stagione: una necessaria opportunità per immergerci più a fondo, più dentro, più in alto, accettando il rischio di cogliere la vita integralmente e di stupircene. Nella scarsità e nella pienezza, nella dolorosa imprevedibilità come nella saggezza fiduciosa.Pensiamo alla proposta che, più di una volta, Gesù fa ai discepoli: «Passiamo all’altra riva» (Mc 4,35). Passare all’altra riva non significa necessariamente il trasferimento a un altro luogo, diverso da quello in cui ci troviamo.