“La preghiera del povero attraversa le nubi” – XXX domenica T.O. Anno C

Per due domeniche di seguito, la Parola di Dio ci chiama a riflettere sulla preghiera: domenica scorsa attraverso la parabola della vedova che andava con insistenza a chiedere giustizia al giudice finché, per la sua perseveranza, non è stata ascoltata. Oggi, invece, attraverso la parabola del fariseo e del pubblicano che vanno al Tempio. Se domenica scorsa non ci siamo lasciati coinvolgere dall’invito a crescere nella nostra preghiera, credo non sia proprio possibile farlo anche oggi.

D’altra parte, ci fa proprio bene fermarci a riflettere su questa esperienza necessaria, seppure impegnativa e spesso, anche per questo, lasciata da parte.

La parabola del Vangelo di oggi presenta alcuni dettagli molto chiari su come possa essere la preghiera del cristiano, quella gradita al Signore.

Fra tutti, ci sono indicati alcuni aspetti che rendono differenti le preghiere del fariseo e quella del pubblicano.

La preghiera del fariseo è lunga,
mette lui al primo posto
ed è teatrale, con il fariseo che si mette bene in vista davanti a tutti.
La preghiera del pubblicano, invece, è corta,
mette al primo posto il Signore
ed è espressa in modo umile e quasi defilato.
Fra le due, il Signore gradisce quella del pubblicano, seppure sia un peccatore agli occhi di tutti.

La grande differenza, mi pare sia proprio nel fatto che lui non mette al centro sé stesso, ma Dio. Non parla di sé a Dio, ma parla con Dio, mettendo al centro la sua misericordia. La stessa grammatica delle frasi ce lo dice: nella preghiera del pubblicano Dio è soggetto e lui complemento oggetto. Nella preghiera del fariseo, invece, è il contrario. Ciò che rende autentica e gradita al Signore la preghiera, non sono le tante parole o i gesti e nemmeno il trovarsi nel tempio: ciò che le dà verità e la fa gradita al Signore è che sia un dialogo sincero, personale, umile.

Val la pena chiedersi se la nostra preghiera è inutilmente lunga e verbosa, se è un autocompiacimento, se è un modo per farci vedere dagli altri, così da cercare nuovi passi per essere autentici nel viverla. Ancor più, però, vale la pena chiederci che posto ha Dio nella nostra preghiera, se lui c’è davvero o se ci siamo soltanto noi. È questo il centro della questione: Dio è un tu, come le altre presone, e la relazione con lui si apre soltanto se entro in relazione con lui, un rapporto di reciprocità, dove ci riconosciamo per quello che siamo: fragili creature, ma amate e capaci, per la sua grazia, di amare. Per dirlo in un altro modo: l’aspetto veramente significativo per vivere la preghiera è quello della fede. Soltanto se c’è la fede nel Signore, nella sua presenza viva e premurosa, c’è spazio per la preghiera. Questo è, probabilmente, il motivo per cui preghiamo poco: forse abbiamo poca fede in Dio e tanta fede in noi stessi, nelle nostre capacità, nelle nostre doti, nelle nostre forze. In questo senso, l’una diventa segnale per l’altra: se la mia preghiera è poca e molto simile a quella del fariseo, probabilmente anche la mia fede avrà bisogno di cure; se la mia fede è debole e non mi vede “in battaglia”, come dice Paolo nella seconda lettura, probabilmente anche la mia preghiera sarà molto povera e centrata su di me.

Fede e preghiera: ecco il cuore dell’esperienza cristiana. Il credente è certamente uno che si impegna per i fratelli ed è nella carità la cartina tornasole della nostra fede, ma la sorgente di tutto sta nella sua relazione con Signore, un rapporto che chiede di essere personale, vivo, vero, un dono da custodire e che mai si possiede. Lasciamoci coinvolgere dalla Parola che oggi ci chiama a fare posto con umiltà al Signore nella nostra vita. Diamo al Signore di essere il centro della quotidianità, il primo e ultimo riferimento, l’orizzonte nel quale ci muoviamo, anche addentrandoci nell’esperienza impegnativa, ma bella della preghiera.

– don Silvano, Casa Sant’Andrea