“Comportatevi in maniera degna della vostra vocazione” (Ef 4,1).
Vocazione: una parola consumata, che sembra lontana, adatta ad altri tempi, incapace di agganciare oggi la nostra vita ma che San Paolo, nella seconda lettura, ci ripropone. Mentre scrive ai cristiani di Efeso non ha in mente anzitutto i modi particolari con cui uno, anche oggi può essere cristiano – sposo, prete, consacrato, laico – ma la chiamata fondamentale che tutti ci coinvolge e che ha coinvolto lui direttamente: Cristo ha chiamato Paolo e noi a lasciarci coinvolgere dal mistero di Dio che è Padre e a vivere da figli, insieme, come fratelli, membra di uno stesso corpo.
Un solo corpo. La chiamata, la vocazione che ci ha raggiunto, che ha trovato il nostro “sì” nel Battesimo e lo trova nel nostro ascoltare oggi il Signore, è quella all’unità, al vivere l’uno da fratello dell’altro. Nel corpo si hanno membra diverse: talvolta la diversità che abita il corpo della Chiesa e dell’umanità sembra costringerci al conflitto, all’opposizione. Quante volte noi ci descriviamo proprio per le diversità reciproche, in opposizione a quello che sono gli altri: “io non sono come lui, non sono come lei”. In realtà la diversità è, in Cristo, luogo di appartenenza reciproca e non di divisione. Nel corpo il piede può sentirsi responsabile dell’occhio, permettendo che nel cammino non vada a sbattere contro un ramo; l’occhio può sentirsi responsabile del piede facendo in modo che non vada a sbattere contro un sasso che lui non intuisce. La bellezza del corpo sta nella responsabilità reciproca, nel sentire l’altro come parte di sé e nel lasciarsi sentire dall’altro come parte sua.
La nostra appartenenza reciproca si fonda sul bisogno. Ognuno è il bisogno dell’altro, perché se io fossi completo e perfetto non avrei bisogno di nessuno ma non lo sono: sono semplice e fragile creatura. Tuttavia proprio il mio aver bisogno dell’altro a causa del mio essere limitato mi apre alla relazione ed è proprio nella relazione che io mi realizzo come persona: nessuno può esistere senza l’altro. Addirittura la debolezza è fonte di comunione reciproca. I nostri aspetti più deboli permettono all’altro di avvicinarsi a noi, di entrare in relazione con noi: gli aspetti deboli dell’altro permettono a noi di essergli di aiuto. Proprio nella debolezza può svilupparsi la parola di Gesù che vede nel più debole e ultimo di tutti la parte più necessaria: lui si è fatto debole e ultimo non solo come servo di tutti ma anche come colui che ha avuto assoluto bisogno degli altri.
Ritorna allora con un senso nuovo la parola “vocazione”. Noi siamo dei chiamati da Dio che ci ha tratti dal nulla alla vita, dal silenzio all’esistenza, per fare di noi un solo corpo con gli altri, nella comunione con lui, in Cristo. Ma questa unità e comunione si fa strada se ci viviamo come un corpo, dove la fame degli altri diventa oggi chiamata e vocazione rivolta a noi e nella fede sappiamo che quel poco che siamo può essere la risposta necessaria, il cibo che sazia la fame degli altri. “C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci” (Mt 6,9). Quel ragazzo possiamo essere noi per la Chiesa, per l’umanità, il ragazzo che oggi è chiamato a fare unità prendendosi cura della debolezza delle altre membra del corpo.
– don Silvano, Casa Sant’Andrea