“Camminate nella carità” (Ef 5.2).
Elia fugge nel deserto, più lontano possibile. Ha alle calcagna gli emissari della regina Gezabele che lo inseguono per ucciderlo di spada come lui ha fatto coi profeti di Baal. Si deprime, anche: siede sotto una ginestra aspettando la morte; avverte che gli impegni datigli dal Signore sono troppo grandi per lui. Di fatto, però, sta scappando non solo per salvarsi la vita: la sua è una fuga dalle responsabilità, dalla sua vocazione di profeta, dall’ascolto del Signore. Egli sta dando credito alla forza dei nemici più che a quella di Dio.
Anche noi talvolta fuggiamo alla sua stessa maniera. È uno schema che abbiamo imparato nel tempo e che talvolta va in automatico. Scappiamo a volte senza tanto sapere di scappare oppure perché ci sembra di evitare i pericoli o perché temiamo di non essere all’altezza di fronte a una situazione. Forse stiamo scappando anche oggi? Da chi o da che cosa? Potremmo scappare da noi stessi, da quel giudice duro e impietoso che siamo noi in certe situazioni, per cui andiamo bene solo se siamo al top. Da qualcuno che ci sembra un gigante fuori portata. Da Dio o, meglio da un’immagine distorta di lui che nel tempo abbiamo interiorizzato. Dalla vita, con il suo limite e la sua asprezza, la sua imprevedibilità, le situazioni che ci trovano impreparati o che avvertiamo prive di senso.
In questo tempo alcune fughe mi sembrano più evidenti di altre.
Anzitutto la fuga dall’imperfezione, che talvolta ci fa abbandonare anche persone meravigliose e progetti belli: un amico, il marito o la moglie, la comunità cristiana, la gioia per la vita. La parzialità, invece, fa parte della vita, quella stessa che il Signore Gesù ha fatto propria e sempre ama, che possiamo accogliere, lavorandola fino a dove possibile e poi semplicemente prendendola sottobraccio.
Penso poi alla fuga dal mondo, un mondo che sentiamo pericoloso e inospitale, contrario alla fede e ai valori maturati nel tempo anche grazie ad essa. Questo mondo nel quale viviamo ma a cui non apparteniamo, ci dice Gesù, a volte ci vede stare in ritirata o compiere scelte di isolamento. Egli, però, ci insegna a starci dentro, portando il nostro contributo, come seme, come lievito, come luce, come sale.
Davanti agli occhi di tutti infine vi è la fuga dalla comunità cristiana, dalla vita parrocchiale, diventata ancora più evidente con la pandemia. Da anni c’è un’emorragia di credenti che interroga la nostra vita ecclesiale ma anche la nostra adesione personale al Signore. Seguire i suoi passi non è facile come pure accettare uno stile di vita, dei riti o una comunità povera perché umana. Non credo si possa dire soltanto “chi vuole trova sempre una porta aperta”: questa fuga ci interpella, a un rinnovamento profondo, nello stile e nelle relazioni, e ci chiede uno slancio in uscita.
Per aiutare Elia a tornare sui suoi passi, Dio gli manda un angelo con una parola autorevole e del cibo che lo rimetterà in cammino per quaranta giorni e quaranta notti. Egli si fa presente anche oggi con noi e ci dona una parola e del cibo per rimetterci sui nostri passi: Gesù Cristo, il pane della vita, il pane che riappassiona alla vita e apre all’eternità. Accogliamolo con fede. Permettiamo al Signore di essere la nostra forza, l’alleato fedele che dinanzi anche agli ostacoli più grandi ci permette di riconoscere che il cammino, nella carità, è possibile.
– don Silvano, Casa Sant’Andrea