Gesù, guardando verso il cielo, disse: «Apriti!» (Mc 7,34).
“Apriti” è un verbo che ritorna nella nostra vita. “Apriti!” sussurrati, detti o gridati con forza a un giovane in parrocchia, all’amico, a una persona cara, alla comunità cristiana, alla società, ma anche a noi stessi, di fronte alla fatica di buttarsi con fiducia nelle relazioni, nelle responsabilità, nel riconoscerci sordi o incapaci di comunicare in profondità con gli altri, sordi e muti con Dio, cristiani che faticano a vivere la propria fede. “Apriti!” pronunciati con impegno e tenacia, ma che non hanno visto aperture, che non hanno dato vita a parole nuove, seppure ci sia stato tanto impegno e dedizione. “Apriti!” detti, ridetti, attesi, aspettati e miracoli che sono avvenuti nel momento in cui non ce lo aspettavamo. Passi di vita avvenuti quando noi non lo abbiamo programmato e deciso, quando la persona ne è stata capace. E, ancora, “apriti!” detti, ma risposte attese secondo i nostri schemi, aperture attese secondo i nostri programmi, per cui una persona ha fatto, magari, anche dei passi veri di crescita ma non li abbiamo colti o non ci sono bastati e per noi quella persona rimane sempre sordomuta, chiusa.
Se guardiamo con verità alla nostra vita, ci accorgiamo che i miracoli della crescita, dell’apertura alla vita non sono il frutto della nostra intelligenza, delle nostre intuizioni, della nostra volontà che decide i passi che una persona deve compiere. La nostra competenza educativa, il nostro amore, non sono sufficienti per sciogliere il cuore di una persona, per darle la gioia di ascoltare, di parlare, di incontrare. Da soli, noi, non possiamo creare nulla di nuovo: da soli, noi, non possiamo compiere dei miracoli. Se fossimo noi gli artefici di un cambiamento in una persona dovremmo chiederci se davvero le stiamo facendo del bene o non piuttosto del male, se non stiamo facendo violenza su di lei. Per godere del miracolo di una persona che si apre alla vita, che pronunci un “sì” fiducioso alla sua chiamata ad esistere, abbiamo bisogno del Signore Gesù, dell’incontro con lui. Il cammino di crescita, i passi di vita, sono dono del Signore che solo è capace di dare forma a qualcosa di nuovo, che solo è capace di dare la vita, di trasformare la nostra realtà, in modi che sfuggono a ogni nostra previsione e modo di fare. È l’incontro con il Signore della vita che solo può cambiare la nostra persona e renderla nuova: lui solo può fare il miracolo di guarire la nostra sordità e di sciogliere la nostra lingua, per renderci capaci di relazioni nuove dove riusciamo ad ascoltare e non solo a sentire, dove riusciamo a pronunciare poche parole ma buone ed opportune, dove riusciamo a metterci in dialogo con il mondo.
Che posto hanno, allora, il nostro impegno, il nostro darci da fare per educare, amare l’altro e aiutarlo a diventare sempre di più se stesso?! Dobbiamo solo tenerci i nostri difetti, i nostri limiti e farcene una ragione? Mi sembra di intuire che un posto per noi c’è ed è quello delle persone anonime che hanno accompagnato il sordomuto da Gesù e lo hanno pregato di guarirlo. Come comunità cristiana, come fratelli possiamo prendere quel posto, anzitutto sapendo stare accanto alla persona che fatica, che soffre, essere presenti accanto a lei, con lo stupore di chi non vuole l’altro diverso da quello che è ma lo ama così com’è, per quello che è, ossia con la capacità di accogliere l’altro gratuitamente. Possiamo anche provare ad accompagnare il cammino delle persone che tanto ci stanno a cuore, sostenere, incoraggiare la nostra e altrui persona, perché giunga all’incontro con Gesù Signore, ossia darci da fare con competenza perché l’altro possa diventare una persona libera, bella, vera, aperta alla vita e aiutarlo poi a incontrare il Signore della vita, a crescere cioè nella fede, nella preghiera, sapendo attendere da lui il dono della guarigione. Possiamo vivere la preghiera per quella persona, ossia essere persone che vogliono così bene a chi è nella fatica da pregare per lui, persone che cercano il miracolo per quell’amico sordomuto invocando da Dio una sua parola e un suo gesto.
Quando siamo stati battezzati, al termine della celebrazione il presbitero ha toccato con la sua mano le nostre orecchie e la nostra bocca, ha fatto su di noi, cioè, il rito dell’Effatà, che richiama l’incontro, il miracolo di Gesù con il sordomuto. Quel gesto non è stato fatto per rimanere lì, chiuso nel tempo ma piuttosto per disvelarsi lungo la vita e anche oggi ha efficacia su di noi. Ritornando con il cuore a quel giorno, domandiamoci qual è oggi l’apertura che il Signore ci chiede, per meglio vivere, per meglio vivere il nostro Battesimo, e rendiamoci disponibili a lui, certi che con le sue parole e con i suoi gesti egli è capace di guarire noi e ogni nostro fratello e amico.
– don Silvano, Casa Sant’Andrea