“Gesù, passando in mezzo a loro, si mise in cammino” (Lc 4,30).
Dentro alla nostra fantasia, in genere il profeta è uno che sa prevedere il futuro. Anche nei dizionari la definizione più ricorrente è: “Persona che predice l’avvenire”. Pochi dizionari dicono: “Persona incaricata di trasmettere la parola divina”. Eppure è questa la definizione alla lettera. “Pro-femi”: due parole greche che unite significano “parlare a nome di qualcuno”. Non parlare di… dire cioè delle cose su di un altro, dire qualche idea su Dio, fare qualche pensierino su di lui, ma parlare in suo nome, perciò pronunciare delle parole che sono le stesse che pronuncerebbe Dio.
Come Geremia, di cui narra la prima lettura di questa domenica. È chiamato da Dio ad annunciare in suo nome e il Signore gli promette la sua vicinanza. Sarà come una fortezza, come un muro di bronzo, quando Nabucodonosor si leverà alla testa dell’armata di Assiria e sottometterà tutti i popoli del Medio Oriente deportandoli a Babilonia. Geremia diventerà voce di Dio quando annuncerà ai deportati la possibilità del ritorno, sarà voce che incoraggia, che conforta.
Come Gesù. Oggi si presenta a noi come un profeta, come Colui che rivela la parola del Signore e annuncia un anno di grazia, di liberazione, un tempo nuovo. Meglio. Egli è Il Profeta, è la Parola stessa di Dio, la Parola che il Padre ha pronunciato per noi. E come ogni vero profeta, anche Gesù incontra la fatica dell’accoglienza. Incontra la diffidenza: è proprio vero che il Signore è qui, che è iniziato un tempo nuovo? E incontra chi lo ostacola: chi dice la verità, chi provoca a un cambiamento… spesso viene messo al precipizio. Ma proprio come un profeta Gesù si comporta: non teme di annunciare e di regalare la parola di Dio che non è mai parola di sventura, ma promessa di bene. Non teme e parla con autorità.
Nel riconoscere la vocazione del profeta nella Scrittura, ci ricordiamo, credo, il fatto che anche noi, tutti, nel giorno del battesimo siamo divenuti tali. In quel giorno siamo stati unti con l’olio dello Spirito che ci ha resi annunciatori del Vangelo, uomini e donne che possono parlare oggi a nome di Dio, capaci oggi di dire una parola che abbia peso come le sue. Tutti noi siamo profeti e oggi la nostra voce è importante: anch’essa può essere la voce stessa del Signore. Ed è tale quando? Quando siamo promessa di bene, quando siamo capaci di leggere la storia e di trovare e di indicare le strade da percorrere per il bene vero, secondo il cuore di Dio. Quando in famiglia, al lavoro, nella scuola, in parrocchia, nella società… siamo capaci di pronunciare una parola vera: quando con la nostra presenza apriamo un anno di grazia, un tempo nuovo per chi incontriamo.
Tante le occasioni, i fronti del nostro annunciare. Saper pronunciare parola di correttezza nel campo dell’economia, della politica… Essere noi “parole” concrete di speranza per tanti bisognosi, per gli immigrati che bussano alla nostra porta chiedendo aiuto… Essere parole cariche di progettualità per tanti giovani che faticano a trovare il senso al proprio futuro… Oggi, poi, la Giornata della vita ci chiama a pronunciare parole in favore della vita e a farci soprattutto parola noi, prendendoci a cuore la vita dal suo nascere al suo morire, con amore, con premura.
Leggevo nei giorni scorsi che secondo la tradizione musulmana, appena il bambino è uscito dal grembo della madre, gli si deve bisbigliare all’orecchio la professione di fede (“attesto che non vi è divinità all’infuori di Dio e che Maometto è l’inviato di Dio”) e l’invito e alla preghiera. Nessun altro suono umano deve incidersi per primo sul terreno vergine dell’ascolto.
Spesso noi abbiamo orecchi sporchi di troppe parole inutili e cattive; l’ascolto è ostruito da una valanga di suoni sguaiati, di discorsi vani, di espressioni spesso volgari. È necessario allora che viviamo un buon ascolto se vogliamo saper dire qualcosa al mondo, se vogliamo pronunciare parole significative. Questa tradizione musulmana… forse ha qualcosa da dire anche a noi, soprattutto alla nostra fatica oggi di pronunciare parole vere, parole che abbiano spessore, parole che siano dette a nome di Dio. Questa tradizione può dire qualcosa a noi che, se parliamo con verità, ci sentiamo mesi ai bordi di un precipizio, in pericolo e manchiamo dell’autorevolezza di Gesù. Aldilà del suggerimento dei nostri fratelli musulmani… è proprio vero che le prime parole da ascoltare dovrebbero essere quelle del Signore, parole da ascoltare nel silenzio della preghiera, magari appena svegli… parole da ascoltare, magari e leggendo la Scrittura e i fatti della vita, in ogni nostro nascere.
– don Silvano, Casa Sant’Andrea