“Piantò una vigna, poi l’affidò a dei vignaioli e se ne andò” (Mt 21,33).
Abita in ciascuno di noi, poco o tanto, un radicale bisogno di possesso: cerchiamo di padroneggiare cose, beni, ma talvolta anche persone e relazioni. In definitiva avvertiamo dentro di noi la pretesa di possedere la vita e, altra faccia della medaglia, la paura di perdere le cose e le relazioni, ossia di perdere noi stessi.
La Parola di Dio di questa domenica mette a nudo queste nostre ambizioni e ci chiama alla generosità del dono, alla gratuità nel vivere quotidiano. Attraverso la parabola della vigna, pianta che nelle ultime domeniche Gesù ha citato più volte, egli ci fa comprendere come noi non siamo i padroni di nulla, ma piuttosto dei contadini a cui è affidata la vigna della vita, delle relazioni, dei beni. Tutto ciò che è in questo mondo è un dono di Dio che ci è affidato, con il compito di prendercene cura, cantando di gioia per questi doni, come detto dal profeta Isaia nella prima lettura (Is 5,1).
Che cosa può aiutarci a ritrovare e rioccupare il nostro posto di contadini, piuttosto che cavalcare la pretesa di possedere la vigna del Signore? Che cosa può farci riscoprire la gioia di cantare i doni del Signore, invece che rincorrere la smania di possederli, di servircene, di controllarli?
Anzitutto il lasciare posto allo stupore, alla meraviglia per quanto ci sta attorno, ci abita dentro e ci è affidato, ossia lo stupore per quel terreno in cui il Signore ha piantato la sua vigna, circondandola di una siepe, scavandovi un frantoio, costruendovi una torre. È davvero tanto ciò che ci è affidato dal Signore. Non solo: è anche bello e curato e porta il segno delle sue attenzioni, delle sue mani. Non è un sentimento facile, tuttavia, lo stupore: spesso ci viene spontaneo giudicarlo e reprimerlo, scambiandolo come un segno di infantilismo. In realtà esprime la consapevolezza di trovarsi dinanzi a qualcosa che ci supera, che ci è dato e non ci siamo dati, che va oltre ogni aspettativa e ipotesi.
Aprire la porta dello stupore, poi, può permetterci di entrare nell’atteggiamento dell’umiltà, di chi entra in punta di piedi dentro alla vita, alle relazioni, di chi occupa il proprio posto, ma anche assume con generosità e laboriosità i servizi affidati, sapendo di doversi impegnare con tutte le energie per qualcosa che non è proprio, ma come fosse proprio.
Nasce così la gratuità dell’amore: ci si inoltra, in questo modo, nel terreno del servizio, del dono di sé per gli altri e per il Signore, dell’impegno nella vita, in famiglia, nella Chiesa, nel lavoro, nella società. Un contadino capace di stupore per la vigna del Signore e di umiltà nel custodirla, è un credente che è capace di amore, di costruire con pace, soddisfazione e senso di responsabilità la propria vita.
Mentre ci lasciamo coinvolgere dalla parabola della vigna non possiamo non pensare ai giovani a cui il Signore affida la vita e la fede come doni da custodire e da coltivare da buoni e generosi contadini. Nel tempo della giovinezza il desiderio di possedere la vita è molto forte, tanto da coprire il bisogno di amare e di lasciarsi amare: il cuore dei giovani, spesso, è abitato dalla paura che soffoca gli slanci del cuore. Anche a loro si rivolge il Signore, chiamandoli a rischiare tutto, a osare una vita a mani aperte e libere, che non si chiudono e non stringono, che faticano e si sporcano dedicandosi a ciò che sta a cuore al Signore.
Chiediamoci insieme a loro: qual è la vigna che il Signore mi ha affidato? La sto custodendo e servendo con cuore gratuito oppure con la pretesa di possederla?
– don Silvano, Casa Sant’Andrea