Cielo e terra in dialogo
Il salmo 112 offre la chiave di lettura di un Dio “che siede nell’alto e si china a guardare sui cieli e sulla terra”: Dio non vive una trascendenza che lo rende insensibile all’opera della sua creazione e all’uomo, non c’è distacco né disinteresse, piuttosto dimostra di prendersi cura del debole e di rialzare chi è caduto. Cielo e terra non sono per Dio due realtà che sussistono all’insegna della reciproca incomunicabilità.
L’uomo depositario di un dono che non gli appartiene
Allo stesso modo, l’uomo si scopre depositario di doni che non si è creato da sé, ma provengono da Dio. Il primo dono è la vita stessa, vita che in filigrana rimanda a una dimensione di trascendenza, ma che egli è chiamato su questa terra a mettere al servizio di Dio e dei fratelli anziché viverla come possesso o come una ricchezza propria. Anche l’uomo è chiamato perciò a essere un ponte tra cielo e terra. Vivere la propria vita come ricchezza da sfruttare solo per sé è oggi una tentazione molto forte, i messaggi da che più parti il mondo ci consegna spingono verso un individualismo e un’autorealizzazione che non tiene conto di origine e destinazione di tale dono, ma si appiattisce sul presente, con l’illusione che trattenere il più possibile porti a realizzare la propria vita in una bolla che però sul lungo termine rende indifferenti verso il mondo che ci circonda e insonorizzati verso il grido di chi chiede una mano tesa. È quello che denuncia la voce profetica di Amos, laddove la società israelitica del tempo si presenta indifferente verso il misero e interessata solo ai propri guadagni, tanto da trascurare addirittura le feste religiose.
La vocazione primaria
Ogni ricchezza che l’uomo possiede è piuttosto condizione per servire. Non possesso disonesto, ma dono da Dio che va messo in gioco come occasione di aiuto e di incontro con l’altro, per stringere legami e rimettere in piedi vite calpestate. Nella lettera a Timoteo, Paolo si presenta come apostolo scelto da Cristo per testimoniare il Vangelo, per essere “messaggero”, “apostolo” e “maestro” (1Tm 2,7). La vocazione primaria di chi è chiamato da Dio è di condurre ogni uomo alla salvezza, salvezza che avviene attraverso l’annuncio, la testimonianza e l’insegnamento. Un compito di salvezza che, nel misterioso disegno di Dio, salva anche il chiamato stesso.
Per chi oggi segue il Signore per una via di speciale consacrazione, il testo di Paolo offre due pilastri su cui fondare questa risposta: la preghiera e l’annuncio. Una preghiera che mette le ali al Cielo se ha il respiro di una universalità estesa a tutti gli uomini, e un annuncio che abbia la preoccupazione “che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità” (1Tm 2,4), anziché quella di mantenere le proprie ricchezze, tante o poche, oneste o disoneste che siano, dal momento che Gesù ci ricorda “non potete servire Dio e la ricchezza” (Lc 16,13b).
Allenarsi ad aprire cuore e mani
Essere buoni amministratori delle ricchezze materiali ci allena ad aprire il cuore alle necessità del fratello su ogni fronte, senza attaccarsi a ciò che non può salvare ma attirati a riversare le nostre energie verso ciò che ha sapore di eternità, perché prima o poi tutti dobbiamo finalmente decidere da che parte stare (“Nessun servitore può servire due padroni”, Lc 16,13a). Aiutare i giovani a scoprire le proprie ricchezze e a metterle al servizio dell’altro come occasione di solidarietà e fratellanza allena ad aprire le proprie mani al dono di sé in modo non spiritualistico né disincarnato, ma ben radicato sulla vita concreta e nella fedeltà alle cose quotidiane: quelle mani con cui l’uomo lavora e amministra i propri beni non siano chiuse per trattenere o strette per difendersi, ma aperte verso l’alto: “alzando al cielo mani pure, senza collere e senza contese” (1Tm 2,8).
Chiediamo al Signore di renderci discepoli della preghiera e dell’annuncio, di aiutarci a discernere ciò che davvero è essenziale, perché le ricchezze che possediamo siano occasione di generoso dono agli altri.
– don Cristiano Vanin