«Che è mai questo?» (Mc 1,27).
Protagonista delle letture di oggi è la parola di Gesù. Una parola che poco prima, nel vangelo di Marco, ha chiamato i primi discepoli: Simone, Andrea suo fratello, Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo. È bastata una parola, un imperativo, perché costoro lasciassero le reti, i primi, e il padre i secondi, e lo seguissero. La stessa parola è ora all’inizio di un giorno particolare, lo shabbat, il sabato, che comincia nella sinagoga. Siamo a Cafarnao, la città di Simon Pietro. Dalle rive del mare di Galilea ci spostiamo, seguendo Gesù, alla sinagoga. Mi immagino che i quattro discepoli siano con lui. E qui la sua parola assume il tratto dell’autorità: un insegnamento nella verità, e la verità, si sa, è una parola che smaschera. Anche noi, quando ci troviamo di fronte alla parola di Gesù, al Vangelo, veniamo smascherati. Ci può capitare di essere come quei profeti citati nella prima lettura, che pretendono di dire ciò che Dio non dice, che si mettono in bocca parole che vengono da se stessi, ma che non sono la verità di ciò che questa parola dice in noi. Ci può capitare di parlare in nome di altri dei, in nome della nostra verità, di ciò che noi riteniamo giusto, di ciò che secondo noi è la strada che Dio ci indica. Ma quella presunzione non ci fa profeti: è una presunzione che non fa che soffocare la verità di Dio in noi. «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?». Probabilmente c’è stato un momento nella nostra vita in cui ci è capitato di pensarlo davvero. Perché, Gesù, mi metti davanti alla verità in modo così limpido, autorevole? Perché mi mostri ciò che io non voglio, perché mi porti su strade faticose, perché mi chiedi di cambiare per te?
Sappiamo che i discepoli faticano a riconoscere in Gesù il Messia tanto atteso. Dopo un primo tempo di timore, di stupore, di prodigi, la strada si farà irta di ostacoli, Gesù rimarrà sempre più solo spogliandosi progressivamente di tutto ciò che lo rendeva straordinario agli occhi della gente, e degli stessi discepoli. Eppure lo spirito impuro che possiede l’uomo nella sinagoga sa perfettamente chi è Gesù: il santo di Dio. Il male sa perfettamente qual è il bene. Forse anche noi, nel nostro cuore, sappiamo già che c’è una parola che sta lavorando, che agisce con potenza, capace di allontanare la paura, i dubbi che ci paralizzano, quegli attaccamenti che ci impediscono di camminare più speditamente. Forse sappiamo perfettamente qual è questa parola “per noi”, così forte da intimorirci per quanto ha il potere di operare nella nostra vita.
La densa giornata di Gesù, che chiama i primi discepoli, insegna nella sinagoga, scaccia i demoni, continuerà poi a casa di Simon Pietro, dove guarirà la suocera. Non c’è soluzione di continuità tra la chiamata dei discepoli, l’insegnamento in sinagoga, lo scacciare i demoni e il guarire i malati. Un’autorità che si manifesta quindi come libertà, verità, guarigione e ritorno nella comunità, e che con la risurrezione riceve la sua conferma definitiva. I discepoli dovranno infatti attendere la Pasqua per riconoscere definitivamente che Gesù è il Messia, motivo per cui egli stesso chiede di non divulgare la sua identità. Non sono i miracoli, le guarigioni, lo scacciare i demoni, non è il “sensazionalismo” ciò che connota definitivamente l’identità del Messia, ma una parola che viene confermata dalla vittoria sulla morte. Noi abbiamo già questa conferma, e nel battesimo anche noi siamo entrati in questo mistero. Quella parola di libertà, di verità e di guarigione è già in noi e aspetta solo di realizzarsi pienamente. Sta a noi lasciare che faccia il suo effetto.
Manuela, Collaboratrice Apostolica Diocesana