“Venne la pienezza del tempo” (Gal 4,4).
Iniziamo un nuovo anno e ci accorgiamo ancora una volta dello scorrere del tempo, quel tempo che i giovani guardano con frenesia, desiderando il futuro, e gli adulti con trepidazione, avvertendolo sfuggevole e limitato. Il nostro rapporto con il tempo ha sfumature diverse per ciascuno ma ci accompagna talvolta un medesimo sentimento che poi diventa atteggiamento: preferiamo fantasticare sul futuro o sul passato, fatichiamo a stare dentro al nostro presente e volentieri sfuggiamo da esso.
Il tempo che viviamo, tuttavia, ha un’altissima dignità ed è l’unica cosa reale a noi affidata. Quel presente che stiamo vivendo e ci accompagna in ogni istante è l’occasione per vivere da figli amati del Padre, per godere della sua benedizione su di noi. Il compimento della storia non è soltanto qualcosa accaduto nel passato e che stiamo consumando: non è neppure solo qualcosa che verrà un domani, quando il Signore lo vorrà. Noi viviamo oggi nel compimento della storia che Dio ha intravisto e che lo ha fatto scegliere di venire tra noi nel mondo. Così ascoltiamo nella seconda lettura di oggi: “Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio” (Gal 4,4). Da quel momento c’è un presente da accogliere come occasione per stare con il Signore che è in mezzo a noi, un presente da vivere insieme con lui, nella fiducia e nella pace, certi della sua presenza che brilla su di noi, collaborando con lui e con i fratelli per il bene, forti del suo Vangelo. Non prendiamocela coi giovani che guardano con impazienza al domani, con gli adulti che sfruttano il tempo come se il domani non ci fosse o coi maturi negli anni che temono il futuro come solo l’avvicinarsi della morte. Impariamo, piuttosto, a dialogare tra generazioni: in questo modo, come ha scritto papa Francesco nel suo messaggio per l’odierna Giornata della pace, “potremo essere ben radicati nel presente e, da questa posizione, frequentare il passato e il futuro: frequentare il passato, per imparare dalla storia e per guarire le ferite che a volte ci condizionano; frequentare il futuro, per alimentare l’entusiasmo, far germogliare i sogni, suscitare profezie, far fiorire le speranze. In questo modo, uniti, potremo imparare gli uni dagli altri”.
In presente è il luogo in cui accogliere il Figlio che Dio ci ha donato, come Maria ma anche per accogliere in noi la parola di Dio che vuole portare vita attorno a noi. Non siamo al mondo per morire, ma per vivere e generare vita. Siamo al mondo per godere del nostro essere figli di Dio, grazie al Natale di Gesù, e per vivere nuovi, per lasciare andare l’uomo vecchio preoccupato di se stesso e aprirci al dono, all’amore. Quando coltiviamo l’angoscia per il domani o la sterile nostalgia del passato, quando ci rifugiamo nel privato impauriti dalla realtà o la affrontiamo in modo aggressivo e violento, quelli sono i segni che non amiamo abbastanza il tempo che ci è dato, che la speranza non è in noi e non stiamo generando. Sono questi i tratti di un’aridità che sta prendendo spazio dentro di noi, il segno che stiamo aprendo le porte alla sterilità del cuore. Ed è proprio il cuore il luogo in cui vivere il Natale. Non tanto nella sua dimensione sdolcinata da panettone o maglione rosso porpora con le renne ma alla maniera di Maria che lì “custodiva tutte queste cose” (cfr Lc 2,19). È dal cuore, da questa parte profonda e autentica di noi, che nasce il bene, che ci apriamo con fiducia a Dio e agli altri, che diventiamo uomini e donne di speranza e generosi. Nel cuore abita la vita nuova che fa sgorgare la preghiera, la gratitudine al Signore, la gioia di vivere, l’attenzione ai fratelli, l’impegno per un mondo nuovo.
“Non sei più schiavo, ma figlio” ci ricorda San Paolo (Gal 4,7). E segno di questa novità è che ci prendiamo il diritto di stare senza catene, senza inutili paure, senza angoscia. Siamo custoditi, in ogni istante, dalla grazia di Dio e forti di questo possiamo vivere e generare vita. Possiamo farlo adesso, senza aspettare la fine della pandemia.
– don Silvano, Casa Sant’Andrea