“Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide” – XXI domenica del tempo ordinario, anno A

“Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide” (Is 22,22).

Si impara ben presto da bambini ad aprire o chiudere una porta, per gioco, per ripararsi dal vento o dalla pioggia, per accogliere qualcuno in casa… Poi ci vuole una vita per imparare quando è cosa davvero buona e opportuna aprire o chiudere le porte a qualcuno o qualcosa ed eventualmente chiudere a chiave.
La stessa pandemia di questi mesi ci ha fatto sentire insieme alla necessità di chiusura il bisogno di uscire e aprire le porte di casa, ma questo desiderio non sempre è diventato incontro con gli altri, bensì fuga individualista. Ci accorgiamo così che molte delle nostre accuse agli altri di poca accoglienza, di non sufficienti attenzioni, per noi non sono del tutto fondate: a volte siamo noi a chiuderci fuori dalla relazione, dal gruppo, dalla comunità, incapaci di portare il peso di rapporti imperfetti, poco motivati dalla fede e dal dono gratuito, spinti soprattutto dai nostri bisogni nascosti.

Questi verbi e atteggiamenti – aprire e chiudere – fanno parte anche della vita cristiana: ci sono aperture da favorire e a volte anche delle chiusure da scegliere o difendere con decisione, pena il perdere se stessi ma anche la propria relazione con il Signore e la comunità dei fratelli. Come Gesù, la nostra vita si realizza all’aperto, lì dove non ci sono muri né porte e si può incontrare l’umanità; come lui abbiamo bisogno anche di tempi di solitudine e silenzio se vogliamo vivere rimanendo in comunione col Padre.
È proprio su Gesù che siamo chiamati a misurare la nostra apertura e il bisogno responsabile di chiusura. Le nostre relazioni e l’autorità sulla vita delle persone affidate talvolta rispondono al bisogno di sicurezza e felicità piuttosto che alla sana reciprocità dell’amore da lui vissuta e che vede necessario accogliere anche il disaccordo, le diverse opinioni, le incomprensioni se non addirittura le “eresie”: usiamo le chiavi mossi soprattutto dalle nostre paure e debolezze piuttosto che dalla possibilità di vivere la vita nuova del Vangelo. Fidarsi dell’altro, dare continue possibilità alla carità fraterna, seppure senza automatismi, è la sola strada indicata dal Signore come Vangelo per la vita e noi siamo chiamati a lavorare il cuore per togliere ogni pregiudizio e rifiuto, così da vivere in pienezza e non opporci alla crescita del Regno.

Fa parte del percorso della maturazione personale scoprire che c’è uno spazio personale e intimo e uno spazio sociale, aperto agli altri, pena il diventare una terra di scorrerie o una steppa deserta; anche la vita ecclesiale deve fare i conti con questi limiti. La scelta tra una e l’altra strada però non può essere compiuta in base alle sole emozioni o al buon senso. Deve piuttosto partire dalla domanda di Gesù nel Vangelo di oggi e rivolta all’intera comunità cristiana e a ciascuno: «Voi, chi dite che io sia?» (Mt 16,15). Se come Simon Pietro sapremo rispondere: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16) allora cadranno inutili paure, diffidenze, muri, steccati, dogane e useremo la chiave in modo sapiente per permettere a tanti di passare attraverso le porte del Regno dei cieli. La sua domanda ci chiede di aprire la porta della nostra vita al Vangelo: a noi la possibilità di usare sapientemente le chiavi.

– don Silvano, Casa Sant’Andrea