Intercedere – Terza domenica di Quaresima, anno C

Accadono tanti fatti lungo le nostre giornate, alcuni ci interpellano maggiormente, altri meno e altri ancora ci lasciano del tutto indifferenti: a farci vagliare la loro importanza spesso è quasi “una marcia già ingranata”, uno schema abitudinario e consolidato che ci fa prendere sul serio alcune cose più di altre secondo schemi imparati nel tempo. La Parola di questa domenica, tuttavia, viene ad arrestare questo passo disinvolto: nel nostro vivere ordinario, nel nostro solito “pascolare il gregge” come Mosé (Es 3,1) il Signore si pone dinanzi a noi e ci interpella, chiedendoci un modo nuovo di abitare i fatti quotidiani e le diverse situazioni. Ci chiama a passare dall’abitudine dinanzi a quanto capita all’interesse vero, dall’indifferenza all’attenzione per le persone, la loro vita, il senso del loro andare: ci chiede di non fuggire dinanzi alle situazioni e di farcene carico, a lasciarcene coinvolgere, soprattutto lì dove c’è l’ingiustizia, la necessità di cui nessuno si prende cura.

Di fronte a due notizie di cronaca Gesù non rimane disinteressato: non fa nemmeno il curioso e, tantomeno, esprime facili giudizi. Di fronte a quanto gli accade attorno egli si interroga, interroga i fatti e la sua coscienza, cercando di capire cos’hanno da dirgli. Egli interroga i fatti per capirne il senso, per cogliere gli appelli che essi rivolgono alla sua persona, alla sua vita, per capire quale coinvolgimento è chiamato ad assumere nei loro confronti. Ecco il senso delle sue risposte ai discepoli che gli raccontano di Pilato che ha ucciso alcuni galilei dentro al tempio di Gerusalemme ed ecco il senso del suo raccontare di alcuni uomini uccisi dal crollo di una torre. Egli non si ferma ad indagare di chi sono le colpe, tantomeno legge i fatti come una punizione di Dio o una fatalità. Piuttosto coglie queste occasioni drammatiche come una chiamata per tutti ad essere svegli, attenti e sempre pronti, perché non sappiamo quando o come la nostra vita potrebbe finire.

Così l’esperienza di Mosè. Da anni non ha più a che fare con il suo popolo schiavo in Egitto, dove lui era cresciuto. Diventato grande aveva sentito crescere l’interesse per il dramma del popolo ma la sua attenzione era degenerata nell’omicidio di un sovraintendente ai lavori forzati e per avere salva la vita era dovuto fuggire nel deserto. Passati alcuni anni la sua vita aveva preso una forma ma rimaneva in un atteggiamento di fuga che il Signore conosceva bene. Ed ecco che lo chiama da un roveto, chiedendogli esplicitamente di smettere di fuggire, di lasciar riemergere la profonda compassione per Israele. Mosé viene chiamato a liberare il suo popolo ma non con le vecchie strategie. Dio gli chiede qualcosa di nuovo. Gli parla, si presenta, lo manda avanti nel suo nome, forte solo della sua Parola. Egli ha udito il grido del suo popolo in Egitto e vuole che Mosé ascolti questo grido, non come un pesante senso di colpa che lo faccia stare nel deserto ma come un appello alla compassione più vera, la chiamata ad una missione nel suo nome che lo porti di nuovo tra i suoi in Egitto, a camminare in mezzo a loro facendo proprie le disperazioni, le attese di libertà.

Intercedere, verbo che nella sua radice latina significa “camminare in mezzo”. Ecco quanto il Signore chiede ai discepoli di Gesù, a Mosé e a noi. Siamo chiamati dalla Parola di oggi a camminare in mezzo ai fatti della storia, tra le persone che li vivono, sentendo nostri non solo quanto ci riguarda da vicino, ci tocca sul nostro ma le ansie e le speranze di chi ci sta accanto, vicino o lontano, comprendendo i bisogni più veri, fra tutti la libertà, la libertà dal male che opprime, la libertà dal peccato. “Chiediamoci” diceva papa Francesco sabato 12 marzo a dei gesuiti “come stiamo portando nella preghiera la guerra in corso? E pensiamo alla preghiera di San Filippo Neri, che gli dilatava il cuore e gli faceva aprire le porte ai ragazzi di strada. O a Sant’Isidoro, che pregava nei campi e portava il lavoro agricolo nella preghiera”. E poco prima: “Se la preghiera è viva, ‘scardina dentro’, ravviva il fuoco della missione, riaccende la gioia, provoca continuamente a lasciarci inquietare dal grido sofferente del mondo”. Lasciamoci “scardinare dentro” da quanto dalla preghiera e da quanto capita nel mondo e, lasciando a Dio di salvarlo, poniamoci tra le persone concrete che hanno bisogno di lui.