«Io sono il Signore, tuo Dio» (Es 20,2).
Amare significa avere a cuore il bene dell’altro, la sua vita, la sua realizzazione. Ed è questo il tratto che ancora una volta riconosciamo nel Signore mentre percorriamo la Quaresima. Egli ama il suo popolo: lo ha scelto, lo ha custodito, lo ha liberato dalla schiavitù e ora pronuncia per lui delle parole ulteriori d’amore. Le dieci parole, per quanto possano sembrarci rigorose, sono un segno di premura di Dio che desidera la vita per il suo popolo, che è geloso della libertà che Israele ha acquistato, della vita che si è aperta dinanzi a lui e non vuole che perda questi doni indispensabili. La libertà e la vita sono doni che permettono ai suoi figli di vivere il proprio essere a immagine e somiglianza di lui. Queste parole sono consegnate anche a noi oggi, come segno dell’impegno da parte di Dio nei nostri confronti, come dono con cui desidera aiutarci a non perdere la dignità ricevuta. Abbiamo ricevuto la vita e nel Battesimo la dignità di figli liberi dal peccato e dalla morte: ora si manifesta e ci ricorda che per custodire ed esprimere al meglio questi beni possiamo fare tesoro di un impegno che lui ha già preso con noi con tanto di gelosia.
Se guardiamo da vicino le dieci parole ci accorgiamo che sono un po’ diverse da come le abbiamo imparate a memoria a catechismo.
C’è una parte inziale, anzitutto, che è tutta al presente e che ci mette dinanzi al Signore: egli è il vivente, eternamente vivo, e l’unico Signore. È il Signore sopra ogni altro signore, sopra ogni divinità e lo è anzitutto perché diverso da tutte le altre. Egli è Dio che ama e vuole liberi, Dio che libera perché possiamo vivere: non ci mette ai suoi piedi, non è interessato a fare di noi degli schiavi. A lui interessa che viviamo e possiamo essere il suo volto nel mondo, la sua immagine sula terra.
Ci sono poi altre parole tutte consegnate con degli imperativi ma al futuro. Sono parole ferme, che impegnano Dio e che lui pronuncia con fermezza perché ne conosce l’importanza. E sono al futuro, non perché voglia un popolo che non smetta di servirlo ma un popolo che continui a vivere, che abbia un domani, un futuro di vita e di libertà.
Nell’insieme queste parole ci impegnano a rimanere liberi dagli idoli falsi, ossia a smascherare quelle realtà a cui appendiamo il nostro cuore credendo siano promessa di un bene più concreto di quello che abbiamo ricevuto dal Signore e che in realtà tolgono fiato al cuore, alle nostre aspirazioni più profonde. A tal proposito mi viene in mente come Giotto ha dipinto nella Cappella degli Scrovegni a Padova l’infedeltà: una figura con lo sguardo cupo e con in mano la statuetta di un idolo che a sua volta ha in mano una cordicella annodata al suo collo. Gli idoli fanno proprio questo: imbrogliano e soffocano, strozzano chi li adora. Tra questi idoli ci sono cose esterne, beni, ideologie, modi di vedere, schemi con cui teniamo assieme la nostra vita ma possono esserci anche i nostri bisogni, quei bisogni che ci appartengono, quali il possedere il necessario per vivere e l’essere amati da una persona, ma che se viviamo credendo siano capaci di soddisfare la nostra sete più profonda finiamo per rubare pur di trovare risposta, diventando dei ladri incalliti.
In fin dei conti il Signore ci ricorda che per vivere e restare libero è necessario che rinunciamo alla nostra pretesa di onnipotenza, alla nostra pretesa di essere Dio e accogliamo la nostra verità di persone in carne e ossa ma destinatarie della sua tenerezza, dei suoi doni gratuiti, della sua alleanza.
Rimanere liberi per godere della libertà che il Signore ci ha dato, per vivere pienamente; rimanere liberi per lasciare spazio alle persone e, fra tutte, al Signore, presenza che non viene meno, che sebbene qualcuno abbia avuto la presunzione di distruggerlo dopo tre giorni è risorto. Rimanere liberi per amare il Dio, stoltezza per molti, debolezza per altri e segreto della vita vera per noi. Chissà quali sono quegli idoli che teniamo in mano davanti a noi e con una cordicella stretta a nodo scorsoio… ci tengono in scacco?!
– don Silvano, Casa Sant’Andrea