“Per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta” (Mt 4,16).
«Venendo ad abitare in Veneto, ho trovato della gente tanto coesa, un popolo di lavoratori, di persone che se la cavano in un sacco di cose» diceva Veronica, una donna originaria di Catania, all’incontro del Gruppo adulti di domenica scorsa. Aldilà delle caricature, probabilmente ha detto del vero, mettendo in evidenza, in ogni caso, dei tratti comuni a tanti nel nostro tempo. Oggi, più che mai, possiamo dire che tutti abbiamo, almeno un po’, la pretesa di essere dei “self made men”, degli “uomini fatti da sé”, o almeno ci pensiamo così, tanto da avere una grande considerazione di noi stessi e una bassa considerazione del prossimo e di Dio.
Nel mondo dei self made men/women, dunque c’è poco posto per Dio, e tanto per il nostro io. Non c’è da meravigliarsi se come credenti viviamo con fatica l’esperienza della fede, se il senso comunitario e l’attenzione agli altri sono fragili o minimali. D’altra parte, la vita cristiana ha poco a che fare con il protagonismo personale: essa non dipende dalle nostre capacità, dalle nostre risorse e bravure. La fede è un dono, una chiamata che viene da fuori da noi, che è proposta di un Altro da noi. Non siamo Chiesa perché noi l’abbiamo deciso, perché noi ci siamo costituiti comunità, ma perché il Signore ci ha chiamati a partecipare a questa grande esperienza. Come per i discepoli, anche per noi la fede è risposta a una chiamata del Signore che ha scelto di passare lungo le rive del nostro lago, ci ha guardati e chiamati per nome, invitandoci a seguirlo. Dentro a questa conversione, avviene qualcosa che a sua volta ha coinvolto anche i discepoli. Al tempo di Gesù c’erano anche altri maestri in Galilea e attorno a loro c’erano dei gruppi di discepoli. Avveniva, però, che erano i discepoli a chiedere al Maestro di potersi aggregare a lui, per la sua bravura, per la sua autorevolezza. Anche Gesù era affascinante e autorevole, ma sua era anche l’iniziativa di chiamare accanto a sé alcuni perché potessero condividere da vicino la gioia del Vangelo e del Regno. Chissà quale sorpresa in Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni, a sentirsi chiamare per nome dal Maestro Gesù. Chissà quale cambiamento interiore nel dover riconoscere che la nuova esperienza non era frutto di una intraprendenza personale, ma di una chiamata, non era frutto di una volontà propria, ma di un dono gratuito. È questa, probabilmente, la grande e quotidiana conversione che come credenti siamo chiamati a vivere: lasciarci vedere e guardare dal Signore, lasciarci coinvolgere da lui, piuttosto che essere noi a scegliere il Signore e coinvolgerlo nella nostra vita; permettere al Signore di indicarci la nostra strada, la nostra vocazione, piuttosto che scegliere noi da soli. Lasciare la centralità al Signore e rinunciare alla nostra è l’inizio della fede e della vita cristiana.
Riconoscere che Gesù è il Signore nostro e della vita, passa anche attraverso il lasciare agli altri e alle situazioni di avere il primato su di noi: “La realtà è superiore all’idea” (Francesco, Evangelii gaudium, 233). Leggo anche così il riferimento di Gesù e di Isaia alla Galilea delle genti, a questa zona ai margini di Israele, abitata da tanti che non credevano nel Dio di Israele, terra di tenebre da cui si leva una voce che è come una luce che le rischiara. L’annuncio del Regno e la chiamata personale dei discepoli arrivano da lì e non da altrove, da questa zona marginale e di peccatori. La realtà e una realtà poverissima è il luogo da cui risuona la voce liberante del Signore che porta luce nel mondo, nella vita del popolo e di quattro semplici pescatori. I poveri e la povertà sono dei luoghi amati da Dio e nei quali egli fa risuonare la sua parola che annuncia e chiama, provoca e coinvolge. È quanto è successo molte altre volte lungo la storia, a uomini e donne che si sono sentiti interpellare dalla fede non tanto nel silenzio assordante di una chiesa o della preghiera, pur importante, ma nelle situazioni di miseria e di povertà, grazie al volto di un povero, di un sofferente, di un non credente. È quanto può succedere anche oggi. Spogliarci del nostro io, mettere al centro gli altri, soprattutto i più deboli, e non noi stessi, è una condizione che permette a Dio di fare breccia in noi e di coinvolgerci nel suo progetto d’amore. Dio ci parla, ci interpella, e lo fa in tanti modi, ma oggi la Parola ci chiede di scegliere la realtà più povera come luogo in cui egli si fa sentire, in cui entra come luce nel nostro buio. Riconoscerci “Galilea delle genti”, abitare nelle “periferie”, è una delle vie per dare il primato alla Parola di Dio, per permettere a Dio di parlarci e di farci comprendere la nostra vocazione.
In questa terza domenica del tempo ordinario celebriamo la prima Domenica della Parola di Dio, voluta da papa Francesco perché la Chiesa cresca nell’amore e nell’ascolto del Signore che ci parla. Sia l’occasione in cui riscopriamo la precedenza dell’ascolto rispetto al parlare, la centralità della Parola del Signore rispetto alle nostre parole. Sia un invito esplicito a non chiudere la Parola di Dio nella Bibbia, certi che il Signore ci parla anche da dentro le situazioni, soprattutto quelle più impegnative e marginali in cui non siamo noi i protagonisti.
– don Silvano, Casa Sant’Andrea