“Chi ha visto me, ha visto il Padre” – Quinta domenica di Pasqua, anno A

“Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14,9).

“Chi ha visto me ha visto il Padre”, è piuttosto chiaro in questa pagina del Vangelo di Giovanni: Dio non va cercato in un’idea astratta (magari perfetta) ma nella concretezza del Figlio incarnato, nella sua storia e (per noi oggi) nelle vicende del mondo. Era già ben chiaro a Lorenzo Lotto, pittore inquieto del ‘500 veneziano, che raffigura la Trinità non in uno sfondo astratto di color oro (come accadeva generalmente) ma dentro un paesaggio rurale e concreto, con tanto di animali (pecore) e un uomo (un pastore)! Dio ha rivelato sé stesso e la propria identità nella storia del Figlio, nel suo parlare e ancor più nel suo agire. Allora il punto massimo, se così si può definire, di svelamento del volto di Dio diviene l’essere appeso ad una croce: luogo di sofferenza ma soprattutto luogo di un amore gratuito e capace di andare oltre ogni merito umano.

Cristo nel dipinto di Lotto ha il costato, i piedi e le mani con ancora i segni dei chiodi: l’aver donato la propria vita è rimasto impresso nel DNA del Figlio, non è stato un “evento di passaggio” cancellato dalla gloria della Resurrezione. Dio rimane fedele, rimane potremmo dire “segnato” dalla sua storia umana, dall’amore donato e dalla compassione vissuta per l’uomo.

Anche noi oggi potremmo rischiare di vivere una fede non “segnata” dalla nostra umanità e anche dalle nostre sofferenze, non “segnata” dalle persone con cui condividiamo i luoghi di lavoro, di studio e di vita, non “segnata” da ciò che accade nel mondo… Potremmo persino rischiare di vivere la religiosità come un “bel pensiero”, consolante, una sorta di rifugio perfetto dai limiti della quotidianità. Ma il cristianesimo è anche concretezza.

Lasciamo che la nostra fede sia “segnata”, forse ciò la renderà meno ideale, meno bella e perfetta ma sarà realmente incarnata! Lasciamoci provocare non solo dalle nostre idee ma da ciò che ci accade intorno e che oggi ha il volto della povertà di chi un lavoro non ce l’ha più o è nella precarietà di un contratto a termine o è un imprenditore che non sa se quando potrà riaprire l’azienda troverà ancora i propri clienti. Da chi vive tensioni in famiglia perché il rapporto di coppia è provato anche dal prolungato e anomalo tempo di quarantena e dalla paura, da chi non riesce a dialogare con un figlio e si sente un genitore impotente. Lasciamoci “segnare” dalla paura e dalla solitudine degli anziani chiusi nelle proprie abitazioni, dai ragazzi che faticano a trovare la propria realizzazione (o vocazione) anche perchè temono di lasciare le proprie sicurezze.

Accarezziamo le ferite di questa gente per scoprire che Dio oggi ha anche il loro volto, che è loro vicino e che attraverso di loro si fa conoscere a noi. Forse non potremo rispondere a tutti i loro problemi e alle loro domande, avvertiremo la nostra impotenza e il nostro limite, ne usciremo rattristati o arrabbiati per ciò che accade ma essere cristiani è prima di tutto com-patire. È farsi vicini e avvertire come nostri i loro disagi e i loro dubbi, è farsi carico dei loro pesi.

Nel dipinto Gesù è come avvolto dalla luce, le sofferenze e la sua umanità sono trasfigurate dall’incontro con il Padre, trovano in Lui ristoro, pace e la forza di essere sopportate. Che questo possa essere l’augurio per noi in questo tempo pasquale: che le nostre ferite possano trovare in Dio un luogo non tanto per essere chiuse quanto per essere affrontate con rinnovata forza e allora potranno divenire, da un dolore patito, occasione di rinnovata solidarietà con i fratelli e di cammino per la nostra vita di fede.

– don Eros, diacono del Seminario Maggiore