Le religiose cattoliche vogliono cambiare la Chiesa e il mondo. Poche, ma istruite e smart, si addestrano a sfidare la globalizzazione ingiusta e la gerarchia patriarcale. Passa da loro il femminismo più visionario?
di Elisabetta Muritti e Gloria RIva
Sono poche le cose che un pontefice non sa, recita un detto vaticano. Quanti soldi hanno i salesiani. Quante persone lavorano in Vaticano (dipende). Che cosa pensa un gesuita. Quanti tipi di suore ci sono. All’ultimo quesito in effetti è difficile rispondere. Anche se qualche numero oggi c’è. Nel mondo le monache cattoliche di clausura, “censite” dalla nuova Costituzione Apostolica, sono 44mila in 4mila monasteri: dal 2000 al 2014 le professe solenni (voti definitivi) degli antichi ordini religiosi, come benedettine e clarisse, sono passate da 48.834 a 38.773, mentre le professe semplici delle congregazioni religiose di più recente istituzione, da 3.819 a 2.817; le novizie, da 2.426 a 1.758. Le suore professe sono, per l’Annuarium Statisticum Ecclesiae 2014, 682.729 (-10,2% dal 2005). Le religiose italiane sono diminuite, dal 2002 al 2012, da 108.175 a 86.431; la loro età media va verso il 46% di ultrasettantenni.
Tra invecchiamento demografico, debolezza delle vocazioni, ampia gamma di possibili realizzazioni personali, nubilato appagante e scarso appeal delle gerarchie ecclesiastiche, i dati si spiegano da soli. Però oscurano un piccolo sommovimento nelle coscienze. Essere suora, oggi, sta diventando una scelta speciale. Per niente anacronistica. Rivoluzionaria. Elitaria.