“Ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri” – (Mt 28,16-20)
Sfioriamo oggi alcune delle vette del Vangelo: le ultime parole dell’evangelista Matteo, all’ultimo capitolo del suo vangelo, sono una carica di speranza e di fiducia che tutti dovremmo rileggere quando ci sentiamo scoraggiati o un po’ fermi, nella nostra vita e nella Chiesa.
Siamo dopo la Risurrezione di Gesù, Gesù appare ai suoi discepoli e si mostra come il Risorto. Ci sono due aspetti interessanti che vorrei condividere.
Il primo aspetto: il luogo. Gesù vuole incontrare di nuovo i suoi discepoli in Galilea. Non nel tempio, non in Giudea – terra di ebrei osservanti, per eccellenza terra della fede – ma in Galilea, dove tutto è cominciato, dove era iniziata la loro relazione con Gesù: lì li aveva chiamati sul lago, lì ignari e forse un po’ incoscienti si erano fidati e avevano lasciato tutto. Potremmo dire che è il luogo della spavalderia degli inizi e delle radici dell’amicizia con Gesù, amicizia che sa di quotidianità e di vita ordinaria, radici di una fede che oggi ricordiamo anche festeggiando San Prosdocimo, primo vescovo del III-IV secolo di Padova, simbolo delle radici della chiesa diocesana. Gesù da Risorto ci chiede di ripartire da lì, da dove tutto è iniziato. Ci ricorda che l’amicizia con Dio comincia quando Lui posa il suo sguardo amorevole sulla nostra vita e quando noi osiamo un po’ di spavalderia. Anche per me, ora diacono, sento forte l’invito a tornare a quelle radici. Per ciascuno di noi sarebbe bello custodire e ricordare con affetto quel luogo o quell’episodio dove Dio ha posato il suo sguardo su di noi e ci ha offerto la sua amicizia, accolta con un pizzico di incoscienza.
Tornare in Galilea, però, non è una semplice “operazione nostalgia”! Ora i discepoli incontrano il Risorto: se all’inizio aveva chiesto loro di diventare pescatori di uomini, ora chiede di battezzare tutti i popoli e di insegnare il Vangelo. Da un’acqua, quella del mare di Galilea, simbolo di pericolo e di morte da cui salvare gli uomini, a un’acqua ora che invece dà la vita.
Un altro aspetto interessante è che la Galilea è terra di pagani, terra di persone ancora lontane da Dio, terra distante da Gerusalemme perché a Nord. Gesù affida la missione delle missioni, la promessa delle promesse, a gente imperfetta in una terra imperfetta. Basta questo per cogliere in controluce il grande mistero dell’amore di Dio per il suo popolo e per ciascuno di noi.
Perché i discepoli sono gente imperfetta? Qui vado al secondo aspetto che volevo condividere. Testimoniare il Signore Risorto tocca a gente imperfetta perché sono in 11, non più in 12. Imperfetti perché addirittura i discepoli dubitano! Ma Gesù non ha bisogno della perfezione: la perfezione spirituale, la perfezione morale, la perfezione intellettuale. È Lui il Dio con noi, il tre volte Santo, noi invece creature fragili bisognosi di riconciliarci con questo. Siamo più spesso noi a voler essere e mostrarci perfetti, ma Gesù vuole più semplicemente persone che si sono fidate di un suo invito, che hanno accettato di diventare suoi amici e che ora anche se vivono una fede traballante, anche se a volte lasciano gli amori a metà, sono disposti a continuare la sua missione.
Missione che vale per ciascuno di noi, ma che non posso non sentire rivolta in particolare a me che muovo ora i primi passi di questo ministero da diacono. Due sono gli inviti di Gesù: battezzare e insegnare.
Comincio col secondo, insegnare. Uno dei compiti del diacono è annunciare la Parola, attraverso l’omelia, ma anche nella catechesi, per aiutare le persone a ridare centralità al Vangelo nella propria vita.
E poi battezzare. L’invito a battezzare non fa riferimento solo al fatto che, da diacono, potrò effettivamente amministrare il sacramento del battesimo, ma battezzare nel nome di qualcuno, nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo, significa dare una appartenenza, dare una casa, far sentire qualcuno amato e accolto da quel Dio che attende tutti i suoi figli. È il ministero della carità, da vivere come diacono, provando a essere strumento nelle mani di Dio in quei contesti dove Lui chiede di stare. In parrocchia, nei gruppi, nella visita di qualche persona in difficoltà, nell’ascolto accogliente. La stola che da oggi porto rappresenta proprio questo: la dimensione del servizio, che poi da sacerdote rimarrà, a ricordare sempre che la carità deve essere una delle priorità per un prete.
Infine non posso non sostare sulla promessa delle promesse, sul regalo più bello dell’evangelista Matteo e che arriva solo alla fine del suo vangelo. Settimana scorsa abbiamo incontrato uno scriba che chiedeva a Gesù quale fosse il primo di tutti i comandamenti, il più grande. Oggi ci siamo noi che chiediamo a Gesù: qual è la promessa più grande di tutte, la promessa delle promesse? Gesù è chiaro: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Verrebbe da dire: cosa volere di più? Da una persona a cui vogliamo bene, cosa desiderare di più della sua garanzia di non abbandonarci mai? Gesù ce lo promette, ma come lo realizza? Tutti i giorni nella sua Parola, nei sacramenti e in particolare nell’Eucarestia, nei volti e nelle storie delle persone che incontriamo, specie i più poveri e gli ammalati, nei più giovani. È qui che lo incontriamo, sempre.
C’è una bella coincidenza tra il vangelo di oggi e l’ordinazione diaconale che ha coinvolto me e gli altri cinque miei compagni di Seminario. Per la nostra ordinazione abbiamo scelto un versetto del Vangelo di Giovanni: “Gesù, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (Gv 13,1). Oggi Matteo ci dice che Gesù promette di essere con noi tutti i giorni “fino alla fine del mondo”. Quell’amore “fino alla fine” è una promessa che dà speranza, anzi la certezza, che mai il Signore lascia un amore a metà.
– don Cristiano, novello diacono